Carlo
Le patate a Balestrino non erano molto coltivate, però si andava a Bardineto per il raccolto, visto che lì la terra è migliore e c’erano parecchi proprietari che avevano bisogno di aiuto per raccogliere sia le patate, sia le castagne. Del resto per noi di Balestrino la ricerca del guadagno era quasi obbligatoria, perché da noi la terra era troppo dura da coltivare se non per gli olivi, e se si voleva mangiare toccava andare (a piedi) anche fino a Garessio per le campagne dei raccolti. Ci chiamavano “figugni”, perché le poche cose che potevamo vendere erano specialmente i fichi, che da noi venivano e lassù no. Anche se poi i fichi erano apprezzati e qualcosa ci ricavavamo.
Si andava su, anche per un mese, e si lavorava dalla mattina alla sera raccogliendo patate e separando le grandi dalle piccole: le grandi erano più pregiate perché si vendevano meglio, mentre le piccole erano quelle che i datori di lavoro riservavano a noi di Balestrino per darci da mangiare finché stavamo lì e poi per pagarci quando avevamo finito.
Il “Saggia Vegiu”, che poi era il padre del Paulin che ha venduto la casa a Lucio, era zio di mio padre: la sera c’era sempre ritrovo, perché non c’era altro modo per passare la serata se non parlare con i vicini. Come sempre i ricchi, di Bardineto e degli altri posti dove andavamo a lavorare, si davano delle arie con i dipendenti ed erano permalosi e un po’ anche violenti.
Da parte nostra si sopportava perché avevamo bisogno di lavorare, ma di mangiare sempre le patate piccole per cena non ci andava troppo bene: ci davano le patate piccole perché così le lavavano e basta e ce le dovevamo mangiarle con tutta la buccia. Una sera il Saggia Vegiu volle fare uno scherzo a quelli di Bardineto e scommise, non so più che somma, che lui sarebbe salito dove nessuno di quelli di loro poteva salire. La scommessa andò in porto con uno dei locali e il Saggia, fattolo inginocchiare, gli salì sulle spalle, poi lo sfidò a fare altrettanto. La scommessa fu vinta, ma poi, la sera stessa ci fu un fugone generale, perché quelli di Bardineto volevano menare lui, per lo scherzo, e noi, perché lo difendevamo.
Il motivo della nostra povertà era anche nella difficoltà di tenere le bestie: siccome quasi tutta la terra era del marchese capitava spesso che una bestia, acquistata con fatica e risparmi di mesi, sconfinasse, per mangiare ma anche semplicemente camminando. Il guaio era che una legge locale prevedeva multe salate per i proprietari delle bestie che sconfinavano e, se non si era in grado di pagare, la bestia veniva sequestrata e data al Marchese come risarcimento.
Per dare un’idea delle difficoltà che si avevano per vivere voglio accennare al modo che si usava per fare legna: le zone comuni dove si poteva andare a prendere la legna del sottobosco, erano quelle in alto, dove c’erano le poche terre che non erano del Marchese e che erano invece di quelli che stavano un po’ meglio degli altri. Si andava tutti a fare legna fino a 200-300 m più in alto di Balestrino, dove oggi c’è il Santuario e oltre. Si disboscava intorno al punto in cui veniva impiantato, facendo squadra, un cavo in acciaio, legato ai tronchi più grossi e che si snodava in giù fino al paese, dove si metteva un argano e si tendeva il cavo fino a farlo passare in alto, anche 30-40 m sopra le nostre teste e le nostre case. Quando si facevano le fascine, si agganciavano al cavo e si lasciavano andare. Qualche volta qualcuno ci lasciava la vita, se non era pronto a sganciare la fascina appena arrivata prima che arrivasse l’altra. La legna poi veniva in parte divisa con chi aveva lavorato e non aveva terre.
Una volta il sottobosco era molto più ricco, perché non c’erano i daini che mangiano tutto quel che vedono: allora se si tagliavano le piante più grosse si lasciava uno spazio per la crescita delle piante nuove, ma adesso se una pianta tagliata ributta i germogli, arrivano subito le capre selvatiche, i daini o altro e mangiano tutto, in modo che il bosco non si rinnova. La gente così ha abbandonato il bosco, le piante sono cresciute fitte e si tolgono l’aria l’una con l’altra; inoltre la crescita di un albero è concentrata nei primi 20-30 anni ed è accettabile fino ai 50-60, ma poi non si ha più crescita e si vede che comunque il bosco si impoverisce
Biancarosa
Ricordo la casa di Paolo Panizza, U Picettu, vicina alla mia, che poi è quella che abito ancora oggi, in via S. Antonio al Cuneo Sottano; Paolo, che era un grande amico per tutti, viveva lì da solo con le sue capre e il suo asino, al quale era molto affezionato; aveva la stalla nel carruggio Garibaldi, quello che scende fino al ritano del ponte e doveva fare un piccolo giro di strada per arrivarci.
Quando si alzava la mattina, la prima cosa che faceva era scendere in stalla ad aprire la porta alle sue capre e all’asino; le capre correvano subito in alto, con una velocità incredibile, che ancora adesso mi impressiona a ricordarlo, e salivano sulla fascia di sopra che era di mio zio, il padre di Biagio e poi di Biagio, per andare a mangiare tutte le piante che trovavano; nel frattempo U Picettu legava l’asino davanti a casa e lo teneva lì fino a quando usciva per andare nei campi.
Ricordo che faceva il vino con i piedi, nei tini di legno, nel carruggio, non ne faceva tanto, solo quello che bastava per il consumo suo e degli amici e, mentre pestava con i piedi, parlava con quelli che arrivavano a scambiare due discorsi.
Sempre al Cuneo viveva Palmiro, un uomo che era un po’ strano, che era apparso senza conoscere nessuno in paese e si era messo a fare raccolta di erbe curative, che usava per guarire la gente del posto, con buon successo, anche se non vantava nessun titolo di studio, a quanto ne sappiamo noi, e poi distillava sciroppi, elisir, essenze profumate per le cure e per il piacere della gente, ma soprattutto era apprezzato per la grappa che distillava con i suoi alambicchi che aveva messo insieme con attrezzature un po’ di fortuna.
Nessuno sapeva chi era e da dove veniva, ma siccome era bravo, stimato, gentile e dava la sensazione di saper gestire tante cose la gente voleva farlo partecipare con delle responsabilità alla vita del paese. Palmiro invece non volle mai mettersi in vista e avere incarichi che lo vincolassero a fare cose organizzate con gli altri.
Palmiro beveva volentieri e spesso lo si vedeva passare barcollando per andare a casa a dormire. I bambini andavano a curiosare quando faceva andare gli alambicchi per distillare l’essenza di eucalipto nel locale che oggi è diventata la cantina di Juanito Scialanga (il nome viene da quello di suo nonno, emigrato e tornato in tarda età dall’Argentina).
Palmiro non vendeva le sue essenze, curative o meno, ma accettava solo offerte in natura, più che altro cibo o vino, con gradimento di vestiario, mentre per sua parte era anche generoso di grappa con chi lo andava a trovare, ma solo da bere sul posto.
Mi rendo conto che così ho dato un’immagine del Cuneo che sembra tutto latte e miele, ma occorre anche dire che allora al Cuneo eravamo tanti di più e noi bambini del posto ci divertivamo a spiare gli adulti che litigavano, perché nella frazione c’erano tanti che erano molto sanguigni e facevano sempre baruffa, anche se poi finiva tutto sempre bene. Ricordo che per quel movimento che si creava tra dispetti, rivalse e litigi, il Cuneo veniva chiamato il Cinema.
Un esempio di come andavano le cose è l’episodio del Tugnin di Maurizio che un giorno litigando con un amico un po’ balbuziente perse la pazienza e gli strappò la maglietta di dosso, lacerandola, dicendogli “adesso vai a comprarti una maglietta nuova”.
Quello non avendo la capacità di reagire a parole e subito, se la legò al dito e lo aspettò per qualche ora, poi al suo ritorno gli saltò addosso e gli fece a pezzi la sua di maglietta e approfittando dello stupore del Tugnin riuscì a dire, finendo tutta la frase “co.. così andremo in duddue a co..comprare la ma.. ma.. maglietta” e tutto finì a risate.
Rinuccia
In famiglia eravamo in nove e io ero la maggiore. Stasera con me c’è Biancarosa, che ha diciassette anni meno di me.
Ricordo la tradizione di S. Giuseppe, quando si rispettava ancora il legato di Carlotta Bazzani. Negli anni ’30, si seguivano gli intenti di un lascito di quella signora, a cura della Confraternita di San Carlo, che ancora oggi esiste e partecipa alle processioni dei Cristi sulle grandi croci, tradizione non solo di Loano, ma anche di Balestrino e di molti paesi intorno.
La Signora Carlotta Bazzani aveva affidato alla confraternita una somma di denaro perché la sera della festa di S. Giuseppe, nella Sacrestia dell’Oratorio davanti al Castello (ospitata nelle Scuderie del Marchese) venisse consegnato, a ciascun membro delle famiglie di Balestrino, un pane bianco. Il pane doveva essere fatto alla “Ca’ du pin d’a Netta”, il fornaio vicino al Castello.
Ricordo che noi eravamo in nove e ci portavamo via i pani ricevuti in sagrestia dentro il nostro “mondillo da groppo” rigorosamente a scacchi bianchi e neri, una sorta di grande canovaccio chiuso a cocche, come si usava allora per trasportare i cibi.
Il “mondillo da groppo” ce lo portavamo appresso la seconda domenica di pentecoste, quando si faceva la tradizionale processione delle cruje (croci) percorrendo i sentieri che portavano alla croce del Monte (il Monte Croce, ancora prima che fosse eretto il Santuario) e da qui alle diverse Croci delle frazioni, poste ciascuna su un colle (rocca) dominante sulla frazione. Si faceva la colazione al sacco alla “rocca del prete”, chiamata così forse perché la funzione veniva celebrata in quella rocca, dove in alto c’era uno spiazzo sotto i pini.
Da lassù si vede Carpe, che una volta dipendeva da Balestrino, come parrocchia e come amministrazione, e dalla Chiesa di S. Bernardo ci suonavano le campane per salutare quelli che facevano il pellegrinaggio delle cruje.
La processione e la sosta alla Rocca del prete duravano tutto il giorno. Alla “Rocca del prete” qualcuno ci portava su con i muli (eravamo in tanti a fare il pellegrinaggio) il “pan de cruje”, una specie di panettone genovese fatto con la frutta secca e il lievito madre che ognuno si conservava man mano che si faceva il pane in casa. Dopo il pranzo al sacco, verso sera c’era la benedizione dei fedeli partecipanti e si tornava a casa.
La frutta secca del pan de cruje per noi era fatta dai fichi, dalle meline selvatiche e dalle pere anch’esse selvatiche che crescevano lungo le strade. Se qualcuno ci fa caso, mentre si sale lungo la Strada Provinciale, subito dopo il tornante all’inizio del sentiero della via Crucis c’è ancora un albero molto grande di queste meline, coperto di frutti che quasi nessuno assaggia neanche più.
La cosa più complicata era fare seccare i fichi, che andavano messi sui cannicci, poi, quando erano ben asciugati si dovevano buttare nell’acqua bollente per ammazzare gli eventuali vermi che potevano nascere. I cannicci, per l’asciugatura, se si volevano evitare i vermi, andavano messi al sole di giorno, ma di notte, per l’umidità, dovevano essere riportati all’interno, e così ogni giorno. Dopo il bagno nell’acqua bollente i fichi andavano poi asciugati e rimessi sui cannicci fino a quando erano ben secchi (sempre solo di giorno!). Anche le melette selvatiche e le perine venivano bel lavate e asciugate, tagliate a fette sottili e messe a seccare sui cannicci.
Il problema da noi era che il tempo non era sempre bello e quando non c’era il sole bisognava riparare i cannicci per non fare bagnare la frutta e così anche la notte, se si temeva qualche sciroccata con la pioggia bisognava mettere i cannicci al riparo. Se il tempo restava incerto per troppo tempo la frutta seccava male.
Maria Luigia
Mio nonno era Emanuele Scrivano, detto Manuelin du Stancu, che era il tabaccaio di Balestrino ed era sposato con la nonna che era nata a Montevideo, dove si erano conosciuti, ma lui aveva nostalgia di Balestrino e volle tornare. Non so bene perché mio nonno fosse soprannominato Manuelin du stancu: qualcuno dice che a Montevideo u stancu era il tabaccaio o qualcosa del genere, ma noi non lo sappiamo per certo. Ricordo che il nonno si rifiutava di consegnare troppe sigarette in una volta ai più giovani e gliele consegnava a 1-2 alla volta e le altre le custodiva lui in uno scaffaletto fino alla sera o al giorno successivo.
Il paese era piccolo, di 300 anime, e il lavoro per il tabaccaio non era tanto, il nonno per stare un po’ bene doveva cercare qualche altra fonte di guadagno e allora andava in cerca di pigne secche cadute dagli alberi e quando scendeva ad Albenga, una volta la settimana al Venerdì, per approvvigionare i tabacchi, portava giù con il suo asino dei sacchi di pigne per il camino di quelli di sotto ai quali vendeva anche le verdure di Balestrino, quelle che da noi venivano meglio, così guadagnava qualcosa e si andava meglio in famiglia.
Al negozio del nonno Manuelin c’era il telefono pubblico e la gente si incontrava per telefonare, poi si giocava alla morra, quando non era ancora proibito. Il negozio era anche osteria e si poteva stare lì a bere il vino e parlare, perché allora non c’era niente di più per passare il tempo quando ci si riposava e per andare a Loano o Ceriale ci volevano ore.
Piero, il Fabbro e il cinghiale
Chi ha letto finora ormai è al corrente della casa rustica in Balestrino, frazione Cuneo sottano, in cui dal 1984 mi sono dedicato per 15 anni circa ad attività manuali di restauro e ripristino di murature; da quando ho smesso tale attività sono passato alla manutenzione. In realtà l’attività nobile, e cioè la vera esecuzione dei lavori, fu affidata alle mani esperte di Piero, il quale è esperto in tutti i rami dell’esecutivo edilizio, mentre io mi riservavo i compiti estremi ed in particolare la progettazione, la demolizione, l’impasto delle malte, il trasporto dei materiali in arrivo, porgere i secchi e fare pulizia, oltre a rompere le scatole imponendo lavorazioni particolari e opere aggiuntive. In tutti i casi l’attività fisica che ne conseguiva ha avuto spesso esito positivo sulla bilancia (meno sollecitata) e sulla salute.
Tuttavia non è Piero il personaggio che più ci riguarda in questo capitolo: il cinghiale, come da titolo, è la vera star della vicenda, anzi i cinghiali che imperversano nella valle fino ad entrare nei campi di patate, più prossimi alle abitazioni, per ararli convenientemente al fine di raccogliere ciò che va raccolto. I balestrinesi ufficiali non si sentono per nulla solidali e benevolenti nei confronti di questi volenterosi raccoglitori non autorizzati, di cui farebbero volentieri a meno. Risultato: su 525 abitanti del paese, compreso il prete, i bambini i gestori di ristoranti, gli anziani, le mamme, le zie, le nonne, e chi più ne ha più ne metta, ci sono più di 150 cacciatori con tanto di tesserino che aspettano l’apertura della caccia per chieder conto delle patate rapite, adottando il drastico provvedimento della multi decimazione.
Piero non fa parte di questa schiera di difensori delle patate, primo perché le sue fasce di terra sono veramente lontane da casa e quindi le patate sarebbero comunque indifendibili da raccoglitori sia a 4 sia a 2 gambe, e poi perché la casa, mai finita del tutto, richiede lavoro (gli altri giorni, se ha tempo, il Piero esce regolarmente e fa tutto ciò che vuole e che può, con il che si vuol dire che, se qualcuno non è troppo stanco della doppia occupazione di muratore (o altro) e coltivatore diretto, si fa una partita a carte con gli amici al bar).
Gli amici sono poi quasi tutti cacciatori, perché chi tale non è ha valide ragioni anagrafiche o sociali per non uscire la sera, ed oltre a ciò sono quasi tutti parenti: si chiamano quasi tutti Panizza e chi non è Panizza può al massimo essere Richero o Rava; se uno di noi forestieri si mettesse ad ascoltarli sentirebbe parlare solo di Piero Panizza, Luigi Panizza, Rosa, Rosina, Rosetta, Rosella, Gino, Ginetto, Pierin, Piera, Biancarosa, Rosamaria, Maria (dovrei aver esaurito qui tutti i nomi usati sul posto). La cosa incredibile è che fra loro si capiscono e sanno sempre esattamente chi è, tra gli omonimi, la persona di cui si sta parlando.
Tra i cacciatori più accaniti possiamo annoverare il Peyrano, ex fabbro a tempo perso quando era dipendente comunale, oggi in pensione; l’attività professionale passata era svolta al solo scopo di rincorrere la soddisfazione di desideri particolari, come l’acquisto di un nuovo fucile o di un cane, anche se occorre ammettere che il Renzo ha due mani d’oro e che, se solo volesse, potrebbe tranquillamente aprire bottega nel senso antico della parola, con tanto di allievi.
Invece Renzo ha una grande passione per la caccia, in particolare per quella al cinghiale, a quanto mi si dice ha una ottima mira ed è sempre indaffarato ad entrare come sostituto in tutte le squadre che di settimana in settimana sono di turno per la caccia; saprete che la caccia al cinghiale si svolge con squadre di anche trenta e più fucili, per cui alla fine a ciascuno dei partecipanti tocca solo un pezzetto di carne di uno o due chili. Ciò nonostante a casa del Renzo il cinghiale non piace più per niente, tanto ne entra nella buona stagione.
È per questo che, in tempi lontani mi sono stati donati da Ornella, moglie di Renzo, alcuni pezzi, con le relative istruzioni per la preparazione: ho provato la ricetta parecchie volte e sono molto convinto della bontà del risultato.
I racconti presenti in questa sezione sono tratti dal libro La Storia… Le nostre storie. Racconti, curiosità, persone, cucina di un territorio, a cura degli Amici della Pro Loco di Balestrino, pubblicato nel settembre 2011.
Quest’opera nasce dal desiderio di raccogliere e conservare la memoria del nostro borgo: ricette, leggende, aneddoti e tradizioni che fanno parte della nostra identità collettiva.